Testimonianza di Oliviero Cervi (riportata in Barbieri, op. cit. p. 84).
Vado dove più massiccia appare la distruzione; nella lunghissima via saremo in cinque o sei. Camminiamo sui cumuli di detriti; i tre militi dell’Unpa non sanno cosa fare, dove cominciare, come utilizzare le misere pale di cui sono dotati. Riconosco C. Fantoni, buon amico di infanzia; con lui e con un giovanissimo dell’Unpa formiamo un terzetto che avanza senza meta. Non sappiamo neppure cosa dirci, ché ogni parola sarebbe priva di senso. Ci arrestiamo davanti ad una casa distrutta perché dalla cantina escono voci imploranti aiuto. Lavoriamo per quasi due ore smuovendo pietre e mattoni, evitando per combinazione un disastroso frammento, gridando frasi di incoraggiamento ai sepolti vivi. Pian piano, con infinite precauzioni, riportiamo alla luce due uomini ed una ragazza, bagnati fradici, con gli abiti a brandelli, resi ebeti e tremanti dalla folle paura.
Testimonianza di un sacerdote (riportata in Barbieri, op. cit., p. 85)
Per esperienza personale posso affermare che il bombardamento del 13 maggio fu senz’altro più grave di quello del 25 aprile, per quel che riguarda i danni alle cose. Io ero ritornato in Seminario Maggiore per ritirare gli effetti personali che vi avevo abbandonato in occasione del primo grande bombardamento. Ad un tratto udii l’allarme e mi precipita nel rifugio S. Giovanni, che non era molto affollato perché gran parte della gente aveva abbandonato la città ed era sfollata in campagna. Sentimmo il rifugio scuotersi come fosse agitato da un gigante, la luce venne a mancare e l’interno si riempì di polvere, mentre tutto continuava a vibrare minacciando di crollare ad ogni istante. Ci sentivamo soffocare senza poter fare assolutamente nulla; si verificarono scene di panico e svenimenti. Appena l’incursione fu passata mi precipitai fuori, respirai a pieni polmoni per qualche minuto corsi a casa mia che era in campagna. Attraversavo la città come un automa, indifferente a tutto ciò che mi circondava, ancora traumatizzato dall’esperienza vissuta poco prima.
Testimonianza di don Giuseppe Cavalli (estratto di “Il calvario di due Ammiragli”, pp. 81-87)
[Il 13 maggio, don Giuseppe Cavalli si trovava detenuti presso il carcere di San Francesco]
Il 13 maggio, poco dopo il mezzogiorno, le sirene urlarono l’allarme. Scendemmo al pianterreno e, usciti nel cortile, cominciammo a passeggiare. Il cielo era tranquillo, carico di sole e di silenzio. Pareva immobile, di cristallo. Non si udiva il più piccolo rumore. Trascorse, così, più di un’ora e mezzo. Alla fine, pensando che si fosse trattato di un falso allarme, decidemmo di risalire alla Quarta sezione. Ma ero appena rientrato nella mia cella, quanto l’ammiraglio Mascherpa venne ad avvertirmi che era in arrivo una grossa formazione di apparecchi: se ne udiva in lontananza il rombo sordo e pesante. E scendemmo di nuovo. Adesso sembrava che il cielo fosse percorso dal mugghio di un mare tempestoso. Gli apparecchi ansimavano, cupamente. Il rombo cresceva, sempre più forte, assordante. Era dappertutto: nel cielo, nella terra. […] Mi parve do udire, in quel momento, un sibilo metallico che lacerava l’aria. Milleduecento uomini, stipati nel corridoio del pianterreno, stettero fermi in ascolto. […] A un tratto ci fu uno schianto pauroso come se un enorme pianeta d’acciaio fosse precipitato sul carcere, sconvolgendo ogni cosa. […] Volavano frantumi di pietra, calcinacci e terriccio, mentre un’oscurità tonante, fatta di polvere e di fumo, invadeva il corridoio come una notte improvvisa. Si soffocava.
“I gas!” . gridò una voce – “I gas asfissianti!”. La folla rispose con un urlo e, presa dal panico, cominciò a ondeggiare come impazzita. […] La folla urlava, Pareva che l’avesse colta un accesso improvviso di follia e di disperazione. Un folto gruppo di detenuti, trovata non so dove una grossa trave, si sforzava di abbattere con essa i portoni di ferro, mentre altri, pratici del luogo, tentavano l’evasione. Un terzo dei reclusi fuggì dal carcere, quel giorno. […] Nello spiazzo, sul quale uscimmo, l’aria era pesante e sapeva di esplosioni: non si respirava che polvere mista a vapori acri. Subito dopo i primi passi scorgemmo tra le rovine il cadavere di un detenuto, orribilmente dilaniato: un tronco senza braccia e senza gambe. […] Accanto a me stava il Questore di Parma […] “Ecco!” – soggiunse il Questore, porgendomi un pezzo di carta e sorrise – “Ho scritto per lei l’ordine di scarcerazione: ora può andarsene tranquillo”. […] Feci un ultimo cenno di saluto e svolta in borgo degli Studi. Le ombre della sera precipitavano sulla città silenziosa e deserta. L’aria sapeva ancora di polvere e di fumo. Le strade erano ingombre di macerie. Il Teatro Paganini bruciava come un rogo, gettando riflessi rossastri sul fogliame dei grossi platani, che formavano il vestibolo arboreo dell’edificio.
Sulle vie sulle case sbrecciate pesava l’atmosfera tragica di un luogo sconvolto dal terremoto. Era un crepuscolo di fuoco e di morte.