Mostra storica promossa dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, con il sostegno di Fondazione Monteparma, Comune di Parma e Regione Emilia-Romagna. Esposta presso Ape Parma Museo dal 20 aprile al 15 giugno 2024.
Attraverso oggetti, documenti, immagini e video testimonianze, la mostra racconta – dalla prospettiva parmense – la storia di migliaia di militari italiani, catturati dai tedeschi nel settembre 1943, che si opposero alla collaborazione con i nazisti e con i fascisti e, per questo, pagarono con una durissima prigionia.
Di seguito, la versione digitale della mostra.
Internati Militari Italiani. Con questa denominazione si intendono tutti i soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi nel settembre 1943, dopo l’annuncio dell’armistizio da parte del governo italiano, e che furono deportati nei campi del Terzo Reich. Si stima che furono circa 700.000 gli IMI catturati in Italia e nelle zone occupate. Di essi circa 50.000 non tornarono più a casa.
I tedeschi non li definirono “prigionieri di guerra”, bensì “internati militari”. Ciò serviva a privarli delle coperture giuridiche che lo status di prigioniero garantiva. Era un modo per vendicarsi del “tradimento” perpetrato dall’Italia nei confronti della Germania.
Non solo. Il governo della Repubblica Sociale Italiana (RSI), nato sotto l’egida di Hitler, non poteva accettare che l’alleato tedesco detenesse militari italiani come prigionieri di guerra, definizione riservata agli appartenenti agli eserciti nemici. Questa situazione contraddittoria (in cui i tedeschi trattenevano nei campi di prigionia dei soldati dell’“alleato” italiano) portò la RSI a svolgere opera di propaganda nei Lager affinché gli internati aderissero al governo, e accettassero di tornare in Italia a combattere sotto le insegne fasciste, descrivendo agli IMI l’internamento come una condizione privilegiata che il Terzo Reich aveva concesso loro.
In questo contesto maturò il “No” degli IMI. Ovvero il rifiuto che la stragrande maggioranza di essi oppose alla proposta di collaborare con i tedeschi e alla possibilità di tornare in Italia a combattere per la RSI e di essere trasformati in lavoratori civili per essere impiegati in lavori di interesse bellico.Come ha riconosciuto la storiografia e come scrisse Alessandro Natta (internato militare e in seguito deputato e segretario del PCI), quella degli IMI fu una vera e propria «Altra Resistenza», contro il nazismo e il fascismo repubblicano, nata l’8 settembre e maturata all’interno dei reticolati.
Nel gennaio 1943 l’Armata Italiana in Russia fu sconfitta a Stalingrado, mentre nel maggio successivo l’Asse dovette abbandonare il Nord Africa. In luglio gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia, mentre le città italiane venivano martellate dai bombardieri nemici.
Il 25 luglio la caduta di Mussolini suscitò in molti la speranza che la fine della guerra fosse ormai imminente. Folle esultanti si riversarono nelle piazze di tutta Italia per festeggiare la caduta del duce. Il maresciallo Badoglio, nuovo capo del governo, iniziò trattative segrete con gli Alleati per la firma di un armistizio che fu annunciato l’8 settembre.
I tedeschi, che nel frattempo avevano preparato contromisure per occupare la Penisola in caso di defezione italiana, reagirono con rapidità. Tutto il territorio centro-settentrionale fu occupato dalle divisioni della Wehrmacht e lo stesso accadde in Francia meridionale e nei Balcani.
Parma fu occupata dai reparti tedeschi della divisione corazzata Leibstandarte SS “Adolf Hitler”. La città era sede di alcune unità militari come il 33° reggimento carristi e il 66° reggimento fanteria, mentre il 433° battaglione carristi era dislocato a Fidenza. Il capoluogo emiliano fu una delle poche città in cui si tentò di resistere sistematicamente all’aggressione germanica. Si combatté contro le forze delle Waffen-SS a Palazzo del Governatore (sede del comando italiano), in Pilotta (allora adibita a caserma), alla Scuola d’Applicazione di Fanteria per allievi ufficiali ubicata nel Parco Ducale e in altri punti strategici della città, come il Palazzo delle Poste, barriera Bixio e piazzale Marsala.
Dopo ore di combattimenti, Parma si arrese alle forze tedesche, nella prima mattina del 9 settembre. I soldati italiani catturati dai nazisti furono radunati in Cittadella in attesa della deportazione.
Gli IMI furono catturati in tutti i fronti di guerra in cui erano impiegate le forze armate italiane: Italia, Grecia, Jugoslavia, Slovenia, Croazia e Francia meridionale. Alcuni reparti ospedalieri si trovavano anche in Germania, mentre altre unità erano dislocate nelle isole egee e ioniche. Si pensi ai numerosi parmigiani catturati a Cefalonia e a Corfù.
Non abbiamo informazioni precise su quanti uomini fossero in servizio nelle divisioni italiane nel settembre 1943. Dai dati frammentari delle fonti militari emerge che erano sotto le armi circa 2 milioni di uomini. Mentre per i parmigiani non è possibile stabilirlo, ma è verosimile che fossero diverse migliaia. Sulla base dei dati parziali a nostra disposizione sappiamo che il 38,5% degli IMI parmensi venne catturato in Italia, mentre il 61,5% all’estero, nelle zone occupate. Il Paese in cui furono catturati più soldati parmensi risulta essere la Grecia (40%), seguita da Albania (22%) e Francia (14%). Per quanto riguarda coloro che furono catturati nella Penisola, molti furono fatti prigionieri in Emilia e in Alto Adige.
La Scuola d’Applicazione di Fanteria (oggi sede del Comando Provinciale dei Carabinieri) ospitava circa 250 allievi ufficiali, comandati dal colonnello degli alpini Gaetano Ricci. Il parmense, al tempo, contava la presenza di circa 6.000 militari italiani, per lo più truppe per la sorveglianza ai depositi e di impiego territoriale.
La Scuola era, quindi, di notevole importanza strategica, non solo per l’alta concentrazione di allievi ufficiali, ma anche perché costituiva un nerbo della presenza militare in provincia.
L’8 settembre 1943 le Waffen-SS presenti nel territorio provinciale, inferiori di numero rispetto agli ormai ex-alleati, si diressero verso i punti nodali della città per neutralizzare il comando italiano e i presidi dipendenti. Fu così che, a seguito del rifiuto degli allievi ufficiali italiani di cedere le armi, la Scuola d’Applicazione divenne uno dei luoghi più importanti della resistenza militare a Parma nel contesto degli eventi armistiziali. Le ostilità iniziarono alle 4:00 del mattino e si protrassero sino alle 7:00, quando gli allievi ufficiali dovettero arrendersi, dopo scontri considerati dagli stessi tedeschi molto duri.
Nei combattimenti morirono cinque militari italiani e una ventina furono i feriti. Delle perdite tedesche non disponiamo di cifre precise, ma sembra che tra le fila dei nazisti ci siano stati circa cinque o sei caduti.
I militari italiani superstiti, dopo essere stati disarmati, furono condotti in Cittadella in attesa della deportazione. Diversi, però, riuscirono a fuggire lungo il tragitto, aiutati dai civili a nascondersi e a sottrarsi così alla cattura.
Nei giorni successivi, inoltre, alcuni antifascisti sottrassero dalla Scuola armi e munizioni, che vennero nascoste in varie parti della città, come il convento delle suore chieppine in borgo Bernabei. Se la resistenza militare degli allievi ufficiali era terminata con la resa, un’altra Resistenza sarebbe presto cominciata.
Molti dei militari italiani che presero parte ai combattimenti dell’8 settembre e che riuscirono a sottrarsi alla deportazione sarebbero diventati importanti membri della Resistenza, come ad esempio il carrista Ettore Cosenza (partigiano “Trasibulo”) e l’allievo ufficiale Leonardo Tarantini (partigiano “Nardo”).
Nelle ore immediatamente successive all’annuncio dell’armistizio, i soldati italiani che tentarono la via della fuga trovarono nella popolazione civile accoglienza e aiuto. I casi in cui la cittadinanza manifestò piena solidarietà ai militari sbandati furono moltissimi, perché in quei giovani impauriti i civili e, in particolare, le donne rivedevano i propri figli, mariti, padri o fratelli impegnati sui fronti di guerra.
A Parma si registrarono numerosi episodi di salvataggio di soldati, principalmente in Oltretorrente, dove erano ubicate le caserme dei Granatieri e l’Accademia degli Allievi Ufficiali presso il Parco Ducale. Da questi edifici, tra l’8 e il 9 settembre, si allontanarono moltissimi militari che si precipitarono nelle case dei borghi limitrofi, chiedendo innanzitutto abiti civili; le uniformi li avrebbero traditi agli occhi dei tedeschi.
La parte più popolare e anche più povera della città si dimostrò generosa e accogliente, contribuendo a salvare moltissimi uomini dal destino dell’internamento. Nell’ambito di questo fenomeno di solidarietà si segnalarono le azioni di soccorso di tantissime donne, così numerose da essere racchiuse nella categoria storiografica “maternage di massa”. Anche le donne parmigiane furono protagoniste di molti episodi di salvataggio: per esempio, quante assistettero al corteo degli aviatori catturati dai tedeschi che passava lungo via D’Azeglio afferrarono diversi soldati dalla strada e li nascosero dietro la folla, facendoli scappare nei vicoli retrostanti.
Il rifiuto alla collaborazione con i nazisti e i fascisti costò ai militari italiani una lunga e dolorosa prigionia. Privati delle tutele derivanti dalle Convenzioni di Ginevra, gli IMI furono impiegati massicciamente nei settori produttivi direttamente legati all’industria bellica: tra tutti, il minerario e quello degli armamenti.
La vita nei campi di prigionia – Stalag per i militari di truppa e i sottufficiali, Oflag per gli ufficiali – fu contrassegnata dalla mancanza dei beni essenziali: il cibo era scarso, il vestiario inadeguato, le condizioni igieniche disastrose. A ciò si aggiungevano le umiliazioni, l’isolamento, le violenze e la carenza di notizie dall’Italia, che rendeva ancor più angosciosa la lontananza dalle proprie famiglie, la cui sorte era spesso ignota.
Il lavoro coatto, pesantissimo, scandiva le giornate degli IMI, oltre ad esporli ad un rischio ulteriore: i bombardamenti, essendo l’industria bellica bersaglio privilegiato delle incursioni aeree degli Alleati.
Nell’estate del 1944, agli IMI detenuti nei territori tedeschi e non impiegati nella Wehrmacht fu proposta la trasformazione in lavoratori civili. Questo cambio di status, secondo i tedeschi, avrebbe aumentato il rendimento produttivo degli italiani, oltre a sciogliere l’ambiguità dei rapporti con la RSI, in quanto era divenuto difficile giustificare la detenzione di centinaia di migliaia di militari di un Paese formalmente alleato.
Dinanzi a questa proposta, che sulla carta avrebbe significato un miglioramento del vitto e dell’alloggio, gli IMI pronunciarono il loro secondo “No”. Accettare avrebbe significato collaborare volontariamente con i nazisti. Di fronte a questo secondo – e per certi versi più significativo – gesto di resistenza, i tedeschi decisero di trasformare d’autorità circa 400.000 IMI in lavoratori civili.
Tra il 1945 e gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra gli internati militari di Parma fecero ritorno in Italia. Il Paese in cui tornarono, però, era radicalmente cambiato rispetto a come l’avevano lasciato. L’occupazione tedesca e la guerra civile avevano tracciato solchi profondi nella società e gli ex-internati ebbero difficoltà a recuperare la normalità lasciata prima del conflitto. Anche perché l’Italia del dopoguerra si dimostrò del tutto indifferente alla loro sorte.
Quei soldati che rientravano dai Lager tedeschi erano membri dell’esercito monarchico sconfitto, di cui nessuno voleva sentir parlare. La stampa della Repubblica Sociale li aveva descritti come collaborazionisti entusiasti del Reich, che avevano lavorato per lo sforzo bellico dell’Asse. Erano, in poche parole, dei residuati delle guerre fasciste, totalmente incompatibili con il racconto pubblico della Resistenza armata, mito fondativo della nascente Repubblica democratica.
Tornati in condizioni fisiche critiche e con un grave disagio economico, gli ex-internati erano lontani dal veder riconosciuta la propria Resistenza, che rimase ignorata.
Fu così che iniziò il lungo silenzio degli IMI. Le loro storie vennero in molti casi rimosse, nascoste in angoli remoti della memoria dei singoli. Talvolta divennero memorie famigliari, condivise cioè esclusivamente con gli affetti più cari. In altri casi ancora furono coltivate per decenni all’interno dei gruppi dei reduci, senza però mai venire accolte nella memoria pubblica dell’esperienza italiana della Seconda guerra mondiale.
Nel dopoguerra, ai mancati riconoscimenti economici, corrispose l’emarginazione degli internati militari dalla memoria pubblica del Paese. La loro storia e la loro memoria divennero presto una questione privata. “Ci hanno messo da parte e ci siamo messi in disparte”: così Giovanni Araldi ha ricordato il silenzio che calò sulle vicende degli internati militari.
Anche per questo motivo, non esiste – ad oggi – un elenco completo degli IMI. Il loro stesso numero è oggetto di dibattito. Le ricerche avviate negli ultimi anni stanno parzialmente colmando queste lacune. Diverse le fonti utili: tra le più preziose, gli archivi delle associazioni reducistiche, che conservano documentazione dettagliata sulla cattura e sulla prigionia dei militari italiani.
Proprio a partire dall’archivio della Federazione parmense dell’Associazione nazionale reduci della prigionia, si è potuto ricostruire un primo, provvisorio, elenco di IMI del parmense. Oltre un migliaio di nomi, di storie, che riemergono dall’oblio e che tornano ad essere parte integrante della memoria pubblica. Un lavoro che potrà essere arricchito in futuro, attraverso la segnalazione di nuovi nominativi da parte di familiari e di studiosi; un riconoscimento necessario, ad 80 anni di distanza, per una storia – e per tante storie – che ha segnato una delle fasi più importanti e cruciali del Novecento italiano.